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«Duro destino è l’avere un destino. L’uomo predestinato avanza e i suoi passi non possono portare che al punto d’arrivo che le stelle hanno fissato per lui […]. Ma tra il punto in cui egli si trova ora e l’adempiersi del destino possono succedere tante mai vicende, tanti ostacoli possono frapporsi, tante volontà entrare in campo a contrastare il volere degli astri: la strada che il predestinato deve percorrere può essere non una linea retta ma un interminabile labirinto. Sappiamo bene che tutti gli ostacoli saranno vani, che tutte le volontà estranee saranno sconfitte, ma ci resta il dubbio se ciò che veramente conta sia il lontano punto d’arrivo, il traguardo finale fissato dalle stelle, oppure siano il labirinto interminabile, gli ostacoli, gli errori, le peripezie che danno forma all’esistenza».

Tratto dall’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino, il passo appena citato – che introduce la storia di Ruggiero e Bradamante – rappresenta il destino come elemento dinamico, anziché come formula statica che descrive semplicemente «ciò che mi sta davanti», o «ciò che è fermo, stabilito davanti a me», come indica l’etimologia della parola. La predestinazione è un canovaccio che si recita a soggetto e che sposta l’attenzione dalla trama della vicenda alla sua interpretazione, dalla parte prescritta per gli attori alla loro capacità di improvvisazione di fronte a resistenze, imprevisti, deviazioni che contrastano con le attese dei protagonisti e che si oppongono a fasi alterne a un disegno che via via prende corpo.

Era destino – però, è anche un modo di esprimere la contrarietà, la delusione che marca la distanza tra i progetti e i desideri, da una parte, e gli avvenimenti e i risultati effettivi, dall’altra. È una forma di consolazione, talvolta un’invocazione per dare spazio al riposo che, tra un’avventura e la seguente, l’esigenza tutta contemporanea della performance non consente di esercitare. Quando il filosofo Byung-Chul Han racconta La società della stanchezza, nelle ultime pagine del libro mette in evidenza la potenza negativa del non-fare, contro quella positiva che chiede sempre di produrre un risultato. Lo stesso ruolo, si potrebbe dire, gioca il destino, perché consente di rimettere, non al caso ma alla consapevolezza delle forze in gioco, l’esito ultimo delle proprie scelte. In questo senso, si può intendere il destino come l’asintoto, il limite massimo, mai davvero raggiunto, verso cui tende la libertà individuale.

Non tutto, insomma, è riducibile a volontà, logica, calcolo. Esiste necessariamente un piano di realtà che sfugge al controllo della mia azione; esiste un labirinto nel quale a volte è indispensabile perdersi per poter ritrovare la strada. Accanto alla sua funzione consolatoria, il destino ne richiede una altrettanto potente di segno opposto: un atto di coraggio che, per un verso, concede all’ignoto di entrare nella mia vita, spesso sconvolgendo i miei piani «umani, troppo umani», per un altro verso, consente di elevarsi al di sopra della scena e cogliere in un solo colpo d’occhio l’evoluzione che la mia storia sta assumendo.

Di qui, una terza caratteristica del destino. Se è vero che esso non è qualcosa che semplicemente mi sta davanti, come l’etimologia suggerisce, è dovuto al fatto che lo si può leggere piuttosto come l’enciclopedia dei fatti che porto dietro di me e che, con il suo peso, mi spinge a compiere le azioni che credo di scegliere liberamente – dove il «credere di scegliere liberamente» non si contrappone all’inflessibile dominio della necessità, poiché in tal caso parleremmo di Fato anziché di destino, ma serve a sottolineare il fatto che ogni mia scelta e azione sono sempre emergenti dalla vicenda esistenziale che ho alle spalle. Gli avvenimenti della mia vita non sono punti che si succedono in maniera uniforme e reversibile lungo la linea del tempo, bensì sono un accumularsi di eventi – talvolta casuali, altre volte intenzionali, altre ancora inevitabili – che si vanno incorporando l’uno nell’altro. Come accade quando un piccolo cristallo di neve scivola lungo un pendio, trascina con sé altri cristalli e, infine, si trasforma in una valanga colma di tutto il percorso che ha attraversato. Una volta compiuto, l’itinerario non può essere ripercorso a ritroso: la libertà è sempre funzione di un accaduto che ne tratteggia i contorni.

Riepilogando, il destino può essere pensato come l’insieme ineliminabile dei vincoli entro i quali si svolge la mia storia; come una sospensione temporanea della volontà che rimescola le carte e restituisce un quadro complesso della situazione; come un’eredità che ogni nuova scelta si trova a reinterpretare.

In ultima analisi, il destino è un esercizio di consapevolezza che rende chiare le mie azioni, la mia educazione, la mia storia personale, le vicende famigliari, l’influenza della comunità in cui sono cresciuto, la cultura che ha modellato la mia visione del mondo, fino ad arrivare alla memoria di esperienze che trascendono il piano individuale, arrivano a quello transpersonale dell’intera umanità e, oltre, alla storia evolutiva della natura che dentro di me si manifesta nei più intimi processi biologici, chimici e fisici di cui sono l’incosciente testimone.

La persona consapevole, ovvero saggia, è quella che abbraccia e incarna il proprio destino, e che per questa ragione non si oppone ma asseconda il peso da cui altrimenti verrebbe schiacciata; è colei che si fa carico di questa immensa eredità di vissuti senza mai identificarsi con ciascuno di essi; è quella che, come il Matto dei Tarocchi, ha tratto l’essenziale dal fardello della sua esistenza e ricondotto gli elementi al momento inutili sotto la linea della coscienza. Questo tipo di persona lascia infine che il destino si compia per ciò che è, indifferente al fatto che si tratti di una strada segnata o meno dalle stelle.

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